Ancora disordini in Tibet

Un anno dopo le rivolte contro l'occupazione cinese che furono schiacciate nel sangue, in Tibet riesplode la tensione. Nonostante la regione sia in stato di assedio, con un dispiegamento senza precedenti di forze armate, e vietata ad ogni osservatore straniero, ieri sono filtrate notizie di duri scontri.

Un centinaio di monaci tibetani sono finiti in manette a Gyala, cittadina a forte maggioranza tibetana, della provincia nordoccidentale cinese di Qinghai, dopo l'assalto ad un commissariato da parte di diverse centinaia di manifestanti. L'attacco è avvenuto in un contesto di una forte tensione in Tibet e nelle province vicine, provocata dai potenti mezzi messi in moto da Pechino per impedire, due settimane fa, le commemorazioni del 50esimo anniversario della rivolta tibetana repressa dalla Cina nel marzo 1959 e conclusasi con la fuga del XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, costretto all'esilio in India insieme ad oltre 100.000 tibetani. "La polizia ha arrestato sei persone che hanno partecipato all'attacco. In 89 si sono consegnate", ha spiegato l'agenzia governativa cinese Xinhua.

La scintilla della rivolta sembra essere stata il suicidio di un monaco 28enne, Tashi Sangpo, gettatosi nelle acque del fiume dopo essere che la polizia lo aveva interrogato e torturato. La sua colpa: aveva esposto la bandiera nazionale tibetana, un vessillo proibito dalla legge cinese perché è simbolo dell'indipendenza. Alla notizia del suicidio del religioso più di duemila persone sono scese in piazza a protestare contro le violenze poliziesche. I manifestanti, inclusi un centinaio di monaci, si sono diretti verso il commissariato di polizia di Ragya e l'hanno preso d'assalto. La controffensiva dei reparti speciali anti-sommossa e delle forze armate non si è fatta attendere, con la nuova retata di manifestanti. I monaci detenuti finiscono nei campi di lavori forzati, dove subiscono sedute di "rieducazione" in cui sono costretti a rinnegare il Dalai Lama e a giurare fedeltà al partito comunista cinese.

E intanto il Sudafrica ha negato il visto al Dalai Lama, che avrebbe dovuto incontrare Nelson Mandela, come lui premio Nobel per la pace. Sdegnato un altro Nobel, l'arcivescovo Desmond Tutu, che ha accusato il Sudafrica di "soccombere vergognosamente alle pressioni di Pechino".

Fonti: Repubblica, Ansa, WallStreetItalia

Free Tibet

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